Sententia
15 febbraio 2015 presso Ai bagni di Stabio
Sentetia: lettura scenica basata su sonorità post moderne incrociate ai pensieri di Blaise Pascal.
“Questi frammenti sono una cosa viva; niente affatto erudizione o filosofia di perdigiorno,
appartengono all’anima di Pascal e potremmo aggiungere appartengono a chiunque di noi.”
voce: Anahì Traversi
Violoncello elettrico e suggestioni sonore: Zeno Gabaglio

LEO KÜRZI

DUREZZA E TENEREZZA

Quella di Leo Kürzi è una conoscenza recente. Lo abbiamo incontrato alle soglie  dell’inverno, davanti ad alcune sue opere, per ideare la mostra. Altre opere, non molte invero, le avevamo viste riprodotte in un libricino stampato per una sua personale al comune  di Bioggio di alcuni anni fa. E soprattutto, dal vivo, davanti al palazzo comunale del borgo luganese, avevamo ammirato una sua stele di marmo di Carrara che ci fece  pensare a un lungo viaggio  nel mondo della scultura del secolo scorso: da Brancusi a Wotruba, da Chillida al nostro Pierino Selmoni. Allora non sapevamo chi fosse l’autore della bella stele finché Ferruccio Frigerio, che l’aveva voluta lì nel verde del giardino, ce lo indicò. Sicché , quando lo scultore si presentò a Stabio avevamo un’idea incompleta ma non peregrina del suo lavoro. Con una sorpresa: immaginavamo alcune opere di maggiori dimensioni, perché, così ci pareva e ci pare, esse a differenza di altre, di altri autori, per i quali vale il discorso inverso, potrebbero reggere benissimo nello spazio che evocano e nel quale sembrano stagliarsi, su scala maggiore.

Le opere sono di pietra o di marmo, monocrome  o policrome. Pietre delle nostre valli, marmo di Carrara. Territori frequentati dall’artista confederato, che da anni vive  tra Stabio e Panicale, nell’Umbria. Da quando, e siamo nel 1986, dopo la frequentazione della “Schule für Gestaltung” di Zurigo, inizia la sua attività di scultore accanto a quella di insegnante. E lo farà con una passione e una consapevolezza rare, tali da assorbirne totalmente le energie. Una vocazione tardiva, se si vuole, -Kürzi si dedicherà interamente  alla scultura alcuni anni dopo, superata la quarantina – ma autentica, che lo porta a muoversi nell’universo della scultura  con intenti e indirizzi precisi. I protagonisti al vertice della linea da lui privilegiata sono quelli ricordati, a cominciare da Costantin Brancusi, il maestro rumeno all’origine  della scultura moderna, che la porta oltre il naturalismo, verso l’astrazione.

“Il reale non è la forma esteriore, ma l’essenza delle cose. Con questo in mente, come si può esprimere il vero nucleo della  realtà imitandone l’aspetto esteriore?” osserva Brancusi, che dà poi vita a un purismo personale, attraverso puntuali semplificazioni formali, stilizzazioni, echi di forme primordiali, cariche di sensualità e di erotismo.

Nell’alveo brancusiano

Kürzi non può resistere alle sollecitazioni che discendono dalla lezione di Brancusi, all’origine  della consistenza tattile e visiva della scultura moderna. Le sue sculture in Pietra basaltina o in Giallo di Siena, in Verde alpi, in Portoro, o in altri materiali, quasi sempre levigati, quasi sempre formalmente semplici, essenziali, a un tempo spirituali e sensuali, sembrano frutto di una personale adesione a questo credo artistico. Anche quando la sua mano si spinge verso forme meno primordiali, più articolate, che richiamano la lezione di un altro protagonista  europeo, Eduardo Chillida, che seppe unire l’indispensabile perizia artigianale, il mestiere, al pensiero che lo deve animare. “L’operaio è uno che sa come si deve fare. L’artista sa ciò che  vorrebbe fare. E se gli riesce di farlo senza sforzo con la mano destra, deve rifarlo con la sinistra per vincere la difficoltà della realizzazione …” affermò lo scultore basco sostenendo poi che “le sorgenti sono spirituali”, come appare osservando i suoi lavori, che rivelano al contempo la fondamentale presenza della  nozione di “plastico” e di “spazio”. Chillida rende  visibile ciò che pure noi potremmo vedere: massi levigati e spazi vuoti. E altri elementi, frutto sempre di immaginazione e sobrietà, grazie ad uno stile lineare, essenziale, austero.

 

L’artista e l’osservatore

Queste peculiarità potrebbero essere sottoscritte anche da Leo Kürzi, sia sul piano formale che su quallo concettuale. Austerità, essenzialità formale, fanno parte anche del suo vocabolario. Così come il richiamo a un primordio della materia, l’aspirazione a raggiungere un equilibrio tra modernità e tradizione classica. Ma anche altro,,ad esempio quando lo scultore confederato attivo a Stabio e a Panicale tende  ad attribuire un ruolo creativo all’osservatore, rifiutandosi di guidarlo nell’approccio alle sue opere, concedendogli libertà interpretativa: una forma, in fondo, di collaborazione. Kürzi, per molti aspetti, è figlio di questa grande linea della scultura moderna, che unisce mano e mente, semplicità e complessità, spiritualità e sensualità, classicità e modernità.

Sembrano categorie  opposte, e invece costituiscono l’ossatura di un’esperienza  nella quale non possiamo non riconoscerci e rispecchiarci con le nostre passioni e predilezioni, alla ricerca di una bellezza redentrice, che ci riscatti dallo squallore crescente. Anche quando, utilmente, significativamente, lo scultore confederato si misura a sua volta con le contraddizioni del mondo contemporaneo, con le sue fughe in avanti, autentiche o sospette. E lo fa sul terreno del lavoro artistico, con i mezzi e negli esiti. Scegliendo tuttavia sempre, un’arte moderna nel solco della grande tradizione del moderno, fondata sui valori linguistici, retinici, non semplicemente sui concetti. Sulla forma plastica primordiale, dura, essenziale. Ma al contempo pura, levigata, tenera. Dura e tenera come la luce, come l’ombra.

Da questo punto di vista, nella distanza, condivide lo spazio d’azione caro anche al pittore Dario Traversi con il quale dialoga in questa rassegna suggestiva aiBagni di Stabio che conclude il ciclo curato da Ferruccio Frigerio. 

 

                                                                                                Claudio Nembrini



DARIO TRAVERSI

L’INSIDIA DEGLI OPPOSTI

È la terza volta nel giro di  sette anni che ci cimentiamo nel non facile compito di osservare e decifrare la pittura di Dario Traversi. Nel suo dipanarsi tra quelli che ci sembrano, incontrovertibilmente, i suoi poli estremi: la resa di una quiete interiore, con radici persino orientaleggianti, misticheggianti, con venature liriche da un lato; l’energia irruente, cara alla grande tradizione moderna dell’espressionismo astratto, dall’altro.  A tratti, poi, quasi a creare dei momenti di uscita  da questa dialettica, all’insegna della negazione di quel che può apparire troppo piacevole o troppo irruente, Traversi dà vita a immagini più semplificate, depurate da ogni reminiscenza poetica, a volte crude,” antigraziose”: così ci erano parse, ad esempio, in occasione  della sua mostra di un paio di anni fa, nella stessa sede “aiBagni”, denominata “oltre”, alcune opere significative. Anche in lui, come per altri artisti autentici, la modernità passava attraverso il difficile, a volte impervio capitolo del rinnovamento stilistico, impervio perché non vissuto come semplice  e opportunistico adeguamento alle mode, ma quale tentativo di riflettere con le immagini  e nelle immagini le complessità del nostro tempo, le sue contraddizioni. Una sorta di presa di coscienza calata nelle istanze del proprio lavoro. Questo processo, tuttavia, gradatamente, anziché portarlo verso una deriva densa di insidie più ideologiche che linguistiche, finiva per essere assorbito dallo stesso fare pittura, arricchendola, a volte semplificandola ma senza negarle i valori primari su cui si fondava. E, naturalmente rivelandone, sull’arco intero del suo sviluppo diacronico, la complessità, la ricchezza delle necessarie contraddizioni. A cominciare dalle fonti, dai riferimenti, dai rimandi. Dall’auscultazione critica delle proprie inquietudini.

La nuova mostra “aiBagni”

La mostra che accompagna questo scritto –la terza, come detto, di cui ci occupiamo- rivela appieno questo processo. Le fonti sono essenzialmente quelle di una propria forte sensibilità per i processi creativi fondati sul linguaggio. Quello musicale, da un lato: Traversi suona il sax, il clarinetto e compone. Ama autori moderni come Bartok, Schönberg, Werben, Berg. Dall’altro, quello delle immagini, che nel tempo ha preso il sopravvento. Non è accaduto per caso, per semplice diletto, pur senza sottovalutarne il significato primario. L’accesso dell’artista al mondo dell’immagini, come creatore in proprio – e qui uniamo al capitolo delle fonti quello  dei riferimenti-, è avvenuto con la consapevolezza di darsi una solida cultura artistica e di identificarsi con le maggiori esperienze affini. I suoi cimenti richiamano sostanzialmente alcuni padri  dell’espressionismo astratto: Gorky, Hartung, Twombly, Afro. E prima ancora, Kandisky e Mirò. A questi si possono aggiungere altri nomi, alcuni ineludibili soprattutto se si considera la dialettica tra la finezza  poetico-tonale di uno dei nuclei portanti della sua arte, e il “vitalismo gestuale” che connota l’altro: Marc Rothko e  Franz Kline. Naturalmente, come per tutti gli artisti veri, piccoli o grandi, si tratta di “antenati” ammirati, amati, assimilati, non copiati. Hanno arricchito il mondo espressivo di Traversi, il suo alfabeto, e lo hanno fatto in coincidenza delle sue “fasi”, dei suoi “poli” estremi. Bene lo attesta  questa terza mostra “aiBagni”, che presenta opere recenti, con qualche esperienza precedente, anche per coglierne appieno l’evoluzione. Continuità e rottura si attestano all’insegna di categorie estetiche che qui sintetiziamo per comodità in “astrazione lirica” nel primo caso (Rothko, ma anche Twombly sono i riferimenti più diretti), e “espressionismo astratto” tout court, nel secondo. L’accento sul terreno dei riferimenti nella fattispecie tende  a spostarsi  da Rothko verso Franz Kline, Montherwell, ecc. Forse, in qualche misura, fino a Vedova. Dalle tonalità di colore accostate  con finezza  poetica tali da far pensare  a segrete armonie interiori sulla falsariga  di inconfessati richiami musicali, le immagini approdano verso i territori dell’energia espressionista, fondata sul segno-materia. L’afflato lirico-tonale attenua la sua luce, spegne l’incanto del suo sogno poetico, cede il passo al primato dell’energia dirompente dei valori espressionisti arroccata dentro la struttura segnica, alla forza dirompente della materia-colore.

L’insidia degli opposti

Forse nell’animo umano, come sostengono culture anche diverse, occidentali e orientali, coesistono gli opposti, se poi tali sono. E a nostro avviso, la cifra stilistica che accompagna l’incontro-scontro  tra le due anime di Traversi, o, se si preferisce, tra le componenti opposte della sua  struttura interiore, è proprio questa: il lasciarle convivere, mantenendo vive le singole specificità. A tratti, osservando le sue immagini, le anime si avvicinano, si sfiorano, persino si toccano; a tratti si allontanano, si liberano di ogni possibile contaminazione. Rivendicano la loro diversità. L’artista dovrà infine accettare la loro convivenza, anziché sopprimere questa o quella, nell’inutile ricerca di una coerenza stilistica, di una pace tra le anime opposte del suo profondo, di cui ho preso coscienza grazie all’arte, dando loro voce con i segni e i colori. La sua vicenda non può concludersi, a nostro avviso, sopprimendo l’una o l’altra, e neppure con un compromesso accomodante. Se non opterà per il silenzio e la rinuncia, non potrà che scandagliare ulteriormente la loro diversità, accettarne la coesistenza, la quale, paradossalmente, anziché un’incoerenza stilistica, costituisce la ricchezza della sua vicenda creativa. Il dopo, vicino o lontano, che lo assilla al punto da ergersi a titolo di alcune sue rassegne, sarà sempre segnato da questa insopprimibile insidia degli opposti.

 

                                                                                                                             Claudio Nembrini

REDI HASA & MARIA MAZZOTTA

URA e le melodie del Natale tra le sponde dell’Adriatico

 

 

Un progetto musicale dedicato al Natale attraverso i suoni adriatici e balcanici di uno straordinario duo che vede la formidabile voce della salentina Maria Mazzotta, solista tra l’altro dell’ensemble Canzoniere Grecanico Salentino, intrecciarsi abilmente con le corde del violoncello albanese di Redi Hasa, solista dell’ensemble di Ludovico Einaudi.

Il progetto, dal significativo titolo di “Ura” (ponte in albanese, adesso in salentino) porta alla luce i legami possibili tra i repertori che navigano attraverso l’Adriatico unendo i Balcani e i Carpazi con le regioni del Sud dell’Italia. Uno spazio importante è dedicato per l’occasione, ad alcune melodie della tradizione natalizia di alcuni dei paesi dell’area adriatica.

La voce di Maria Mazzotta, unica nel panorama italiano, si muove leggera e ricca di mille sfumature tra le lingue musicali delle due sponde mentre le note fantasiose e creative di Redi Hasa propongono, ogni volta, una e mille soluzioni possibili alle melodie tradizionali reinventando ogni volta la tradizione.

 

Grazie a Maria Mazzotta e a Redi Hasa,

ci si trova subito catapultati nei densi e vivaci aromi dei Balcani.

Della maestria vocale e strumentale si resta sbalorditi, c'è unione perfetta e grande naturalezza nell'esecuzione di brani melodicamente e ritmicamente molto impegnativi.

Preziose sfumature armonich insieme a un piglio improvvisativo

che trasmette un senso di freschezza che si rinnova ad ogni istante.

Ludovico Einaudi

 

       “Abbiamo sfidato le freddi notti d’inverno con tempi dispari, strofe in rima, il vibrato del canto. Così, nota dopo nota, l’anima si è liberata giocando svelata tra le corde della voce e del violoncello. Abbiamo poi cercato e mescolato la musica e le lingue. Dalle pianure del Sud Italia ai Balcani, fino ai Carpazi. Sembrava una sfida solitaria, un gioco di virtuosismo e invece con quelle melodie e quei ritmi abbiamo costruito un ponte - ura in albanese - e vogliamo attraversarlo insieme a voi, ora - ura in salentino”.

Maria e Redi

 

 9a Biennale dell'immagine di Chiasso -

Inaugurazione 25 ottobre 2014 ore 18.30

Il libro “L’odore della brace spenta” si trasforma  -con foto, testi e oggetti – in una mostra.

Il grande spazio al piano terreno di quello che fu uno degli stabilimenti termali di Stabio accoglie la sfida di una nuova trasformazione e diventa contenitore di una personale ricerca che ripercorre un affettuoso viaggio di ritorno. Nella prima gioventù dell’autore, nella sua casa “dove l’Olanda discretamente appariva dappertutto”. E nel dopoguerra della montagna del Ticino del nord. Contiene messaggi d’inchiostro che, per un attimo, come fuochi fatui, raccontano di quando si faceva la mazza sulla porta di casa, si cacciavano le volpi con la stricnina, il venerdì andava in tavola il merluzzo salato e il caffè era quello del pentolino. Ma anche di quando San Faustino veniva portato in processione per far piovere, i negozi erano piccoli bazar dove si trovava di tutto, nelle osterie si giocava a carte e si cantava. E mille altre situazioni, persone, luoghi di una Heimat alpina che ogni anno un po’ svanisce.

La mostra agli ex Bagni propone lo sviluppo di 8 moduli/capitoli

1.      La mazza  2. Cereali  3. Castagne  4. Altri cibi  5. Carni dimenticate  6. Case  7. Osterie  8. Negozi

Le fotografie di Lorena Pini e i testi di Martino Giovanettina raccontano le storie di persone, oggetti e cibi che hanno segnato la vita in tre villaggi alpini nel dopoguerra, cercando di individuare ovunque è possibile una traccia antropologica che attraversa l’intero mondo della montagna.